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Le calme equatoriali e la gestione dell'acqua dolce



Avete mai sentito l’espressione: 40 ruggenti? O 50 urlanti?

Non è certamente riferita al bel vivere del jet set occidentale ma all’intensità dei venti rispetto alla latitudine. Infatti, più ci si allontana dall’equatore, più il vento aumenta per un fattore geofisico dovuto alla forma del pianeta e alla sua rotazione. Sono le latitudini preferite dai racer intorno al mondo, quelle dove trovi tempeste e venti impetuosi…

Va da sé che, al contrario, più ci si avvicina all’equatore, meno vento si trova.

L'esploratore portoghese Ferdinando Magellano chiamò questo oceano "Pacifico" a causa del mare molto calmo che trovò durante la sua traversata dallo stretto di Magellano fino alle Filippine.

Esiste infatti una fascia a cavallo dell’equatore e compresa tra i tropici, chiamata appunto zona delle calme equatoriali. Nell’Atlantico, in base alla stagione, si estende tra i 3 e i 30 gradi nord, mentre nel Pacifico è meno estesa e va dai 3 agli 11 gradi di latitudine nord.

La zona, nei periodi di calma, è caratterizzata da abbondanza di precipitazioni e assenza totale di vento. In alcuni mesi la calma è assoluta.

È sempre stata una disperazione per i navigatori a vela del passato che incappandoci, si fermavano completamente per giorni e addirittura per settimane. Immaginate un bastimento a vela del 700 con a bordo 100 uomini, 50 cavalli (merce di scambio e forza lavoro sulla terraferma) oltre agli animali da allevamento caricati come cibo. Non esistevano celle frigorifere per la conservazione delle scorte alimentari, né serbatoi d’acqua potabile igienizzati e la frutta (indispensabile per la vitamina C) deperiva subito. Ecco, immaginate tutto questo sotto un sole di 50 gradi e avrete lo scenario perfetto del dramma.

Pensate che per capire se fosse in arrivo un refolo di vento i marinai gettavano in mare delle piume di gallina sperando di vederle muoversi in superficie, con lo sgomento di ritrovarle nello stesso punto anche dopo 3 giorni. Delle piume!

Con le scorte in esaurimento, gli equipaggi e gli animali disidratati, la scelta era obbligata. Talvolta si era costretti a gettare in mare i cavalli per poter sopravvivere e alle volte addirittura si mettevano a mare le lance e con quelle si trainava a remi il veliero fuori dalla bolla di calma piatta.

Il loro nome diventò “latitudini del cavallo” o Doldrums (umore triste).

In caso contrario (senza sacrificio degli animali) il prezzo in vite umane era altissimo, tra scorbuto e disidratazione, una parte dell’equipaggio sovente non tornava a casa.

Erano altri tempi è vero, ma ancora oggi chi si avventura in quelle latitudini sa bene a cosa va incontro e non solo si carica di acqua dolce a iosa ma si attrezza per raccogliere anche quella piovana che, come detto, abbonda.

Bere acqua di mare e sempre letale?

“Acqua, acqua dappertutto, e nemmeno una goccia da bere”. Recita più o meno così ‘La ballata del vecchio marinaio’ del poeta britannico Samuel Taylor Coleridge.

In effetti abbiamo sempre creduto che bere acqua di mare potesse essere fatale in breve tempo.

Infatti, in un organismo disidratato, l’ingestione di acqua salata sovraccarica i reni che si trovano obbligati ad un lavoro improbo, filtrare tutto il sale. Questo li porta in breve tempo al blocco, con conseguente coma e decesso.

E questo è provato.

Ma che dire se si iniziasse ad ingerire acqua di mare ben prima di essere disidratati? Secondo il medico francese Alain Bombard intorno agli anni 50 del secolo scorso, convinto della sua teoria, sperimentò su se stesso la sua teoria. Autonaufragò per 65 giorni su un gommone Zodiac durante la traversata dal Marocco ai Caraibi.

Portò con sé poche provviste, trovate tra l’altro quasi intonse all’arrivo, e bevve acqua di mare da subito. Perdette 25 kg ma le sue condizioni all’arrivo erano più che buone.

Col suo esperimento non solo dimostrò che il nostro organismo in ottima forma è in grado di tollerare piccole quantità di acqua salata ma anche che il mare abbonda di cibo (mangiò tanto plancton – proteico). La sua convinzione è stata quella che la mente del naufrago è la sua risorsa o la sua tomba.

La paura di morire (secondo il suo pensiero, che io condivido) ti porta inesorabilmente alla morte. Se vi ricordate anche nel naufragio di Ambrogio Fogar con Mancini (74 giorni) i due avevano instituito “l’ora del parlare”. Un appuntamento fisso, irrinunciabile per tenere alto il morale e positiva la mente.

Il mare insegna tanto. Sta a noi fare tesoro delle sue parole.


Marco Scanu, diplomato al nautico, conduttore imbarcazioni, si occupa di comunicazione soprattutto in campo nautico

  • Pubblicato il
  • 06/07/2022

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